(In risposta alle cinque domande di Piero Bassetti – questo articolo è apparso nel sito di Mondohonline e qui ripubblicato per gentile concessione)
Siamo tutti confinati nell’inaudito campo mondiale della riabilitazione forzata COVID 19. La condizione è analoga a quella di chi ha subito un grave trauma e si trova in un centro ospedaliero di riabilitazione. In queste strutture, chi riesce ad uscire dal girone delle rianimazioni si ritrova in uno stato prolungato di fragilità e impotenza.
Come si affronta questo genere di situazioni? Fare finta di nulla e illudersi che tutto torni come prima o meglio di prima, abbattersi nello sconforto o aggredire col proprio stress il mondo esterno sono soluzioni controproducenti che aggravano il processo riabilitativo. L’alternativa è di trasformarsi in esploratori dei propri limiti accettando la nuova condizione traendone tutto il meglio che è possibile.
Con questo spirito e nell’ottica di coloro che hanno vissuto direttamente l’esperienza del confinamento prolungato, Mondohonline affronta ciascuno dei cinque formidabili quesiti che un uomo politico saggio come Piero Bassetti ha posto alle coscienze del suo tempo.
1) Quale “decisore” può comporre il conflitto tra l’opinione popolare e la competenza della tecnica?
Per chi ha vissuto in un centro di riabilitazione la risposta è molto chiara: la competenza tecnica delle strutture mediche è il contesto decisionale di riferimento nel quale sopravvivono e si riabilitano le persone. La comunità dei ricoverati ha una sua opinione che può influenzare ma non governare il tecno-sistema sanitario.
Anche nella società colpita dalla pandemia nessun “decisore politico interprete dell’opinione pubblica” è autorizzato ad agire da solo. Data l’arretratezza dei sistemi di assistenza online e di una cultura istituzionale di prevenzione, quando scoppia l’emergenza pandemica si può solo confidare nella capacità del politico di turno di aver predisposto per tempo le strutture adeguate, di saper attivare agli scienziati migliori e di svolgere umilmente e onestamente la sua funzione di mediazione istituzionale.
Durante il periodo di espansione della pandemia come in quello della disabilità acuta, il conflitto risultante dalle pressioni dei sistemi economici e politici viene composto all’interno di quello della tecnica medica specifica che si presume debba permettere la più rapida sopravvivenza e riabilitazione a livello locale.
In questa fase la volontà politica, prima focalizzata sulla cattura dell’opinione e dei sentimenti degli elettori a supporto delle istanze di crescita dell’economia, viene semplicemente inglobata da un sapere tecnico sovranazionale e ridotta a un ruolo tecnico-burocratico. Le pressioni del sistema economico che erano determinanti per i ritmi e gli stili della vita precedenti al trauma pandemico o disabilitante si arrestano di colpo, ma sono destinate a riesplodere in fase di reinserimento sociale in una forma che implica una pesante caduta di reddito se non uno stato di vera povertà. Molti lavori precedenti sono destinati ad essere abbandonati e l’impegno produttivo giornaliero riorganizzato anche in smart working o ridotto in misura consistente.
Inizialmente il processo del “che fare” si sposta dunque all’interno della comunità tecnico-scientifica ed è funzione della qualità del personale medico locale, delle strutture sanitarie disponibili e del livello di assistenza sociale in essere.
Per le fasi successive si presume l’entrata in gioco delle competenze degli esperti dell’economia che dovranno non tanto far ripartire il sistema precedente ma attivare i modi di un suo nuovo sviluppo in condizioni di sicurezza ambientale e personale.
Sul piano della società globale l’evento pandemico sembra quindi indicare l’avvento di una nuova forma di tecno-politica più adatta alla “civiltà bio-tecnologica” capace di sospendere e trasformare libertà individuali assicurando la sopravvivenza in salute e di condizionare l’economia di mercato prevalente.
2) Quale sistema di relazioni e di saperi si può immaginare dopo l’accelerazione pandemica?
La condizione di pandemia, come il trauma di una grave disabilità, aumenta di colpo la necessità di interventi immediati e coordinati di più servizi orientati alla persona. Il tipo di intervento riabilitativo ottimale è svolto da più discipline che operano tenendo conto dell’insieme del “sistema umano” e non solo di un particolare aspetto della patologia che lo coinvolge.
Per i pazienti il pericolo maggiore consiste nell’essere considerati alla stregua di una “cosa” , un semplice numero o un insieme di organi tra i tanti. Analogamente per il cittadino confinato o in quarantena il pericolo maggiore è legato alla spersonalizzazione di contatti con le strutture di assistenza e le burocrazie, un disagio che spesso si somma alle inefficienze di sistema e alla automatizzazione errata dei servizi.
Come in ogni stato di emergenza, un “sapere burocratizzato” fondato su rigide specializzazioni e ripartizioni degli ambiti di intervento risulta troppo rigido e quindi inadeguato. La estrema specializzazione focalizza sì il particolare ma difficilmente coglie la complessità e dinamicità dei processi disabilità o di emergenza e pertanto rallenta la sopravvivenza e la riabilitazione dell’umano e delle comunità nei territori.
In relazione alla salute il confronto è quindi tra “saperi focalizzati sui processi sistemici dell’organismo umano” e “saperi centrati su aspetti particolari degli organi del corpo umano“, il compito non è semplice per comunità scientifiche vincolate a protocolli consolidati e soggette alle pressioni degli operatori economici del settore.
Un problema analogo si presenta anche per i sistemi di gestione amministrativa del territorio che, soprattutto in uno stato di pandemia, devono garantire la qualità e velocità delle interazioni personalizzate per la semplice fornitura di supporti protettivi e nutrizionali o per la più complessa assistenza medica e di monitoraggio a distanza.
Il salto è di mentalità, riguarda le istituzioni e le burocrazie ma anche tutti i cittadini di un pianeta ormai quasi completamente digitalizzato. L’info-mondo, sotto la spinta dell’isolamento motorio, è destinato ad accelerare ulteriormente lo sviluppo di una umanità per la quale l’interazione “informatica virtuale” si sovrappone ancora più di prima a quella “biologica reale” del tradizionale faccia a faccia. Emergeranno nuove opportunità ma anche nuovi rischi e patologie individuali e sociali con conseguenti comportamenti compensativi. Si vedranno presto emergere nuove competenze scientifiche ma anche giuridiche legate in particolare alla ridefinizione della privacy e degli spazi di libertà individuali.
Lo stress da mancata mobilità generato dal pericolo pandemico è destinato dunque a spianare la strada all’internet che fa dialogare direttamente le cose, ai servizi online, alla realtà aumentata e all’estensione di sistemi digitalizzati nelle sfere del lavoro, apprendimento, svago, salute e al controllo individuale dei pericoli ambientali, e a favorire l’adozione di sistemi di controllo e monitoraggio istituzionale H24.
3) Come uscire dall’impotenza per l’assenza di un potere legittimato a governare l’innovazione?
In un centro di riabilitazione talvolta si alimenta un sottosistema emozionale di pazienti che ingaggia un confronto e talvolta anche uno scontro con le procedure dell’istituzione per ottenere gli spazi di espressione necessari al processo di guarigione. Il sistema tecnico più avveduto si avvale cioè della creatività presente nelle relazioni umane che si sviluppano anche nei gruppi di “pazienti ribelli” quando si eliminano le distinzioni formali e si instaurano relazioni personalizzate e empatiche.
Un analogo processo avviene anche nella società in stato di pandemia quando si lasciano liberi i cittadini di comunicare in modo virtuale. Si creano gruppi, fonti informative parallele a quelle ufficiali e seguaci di personaggi o teorie anche infondate.
Quella informale, pur non essendo una modalità in grado di dominare la potenza tecnologica organizzata prevalente, è però una formidabile espressione dell’Ambiente Umano che, unito a quello Naturale, può influenzare anche pesantemente il comportamento del sistema medico scientifico. L’innovazione che ristruttura un sistema riabilitativo sanitario nazionale in stato di pandemia ha la stessa natura di quella che coinvolge il singolo paziente in riabilitazione. In “isolamento” si sente il bisogno di essere costantemente seguiti anche con un flusso continuo di informazioni pratiche.
Nella società i comunicati quotidiani, se pertinenti, aiutano ad affrontare lo stato di emergenza e le reazioni che si attivano nella rete sono espressione di aggregazioni informali di cittadini che possono agevolare o suggerire specifici provvedimenti e decisioni. Le reti informali web sono sempre più decisive per le sorti del pianeta al punto che possono anche ostacolare decisioni istituzionali e per questo vengono usate anche per far assumere decisioni a parlamenti, influenzare gli elettorati, divulgare segreti diplomatici, organizzare movimenti alternativi, alimentare stati di paura divisiva o viceversa di apertura collaborativa.
Anche per questo nuovo ambiente digitale, in una condizione di necessità pandemica, il consenso legittima direttamente l’autorità tecno-scientifica e l’impotenza delle strutture politiche tradizionali è il segno del loro inevitabile ridursi da sistema orientato alle istanze della crescita economica a sistema funzionale allo sviluppo delle soluzioni tecno-sanitarie prevalenti perché ritenute più efficaci .
La legittimazione del potere decisionale segue dunque una via diretta che unisce i cittadini ai responsabili della tecno-gestione saltando tutte le strutture di rappresentanza intermedie nella Società anche in ottemperanza dei dettami costituzionali relativi agli stati di emergenza . Per i Centri di Riabilitazione la costituzione è sostituita dal consenso informato,
Il governo dell’innovazione, laddove esiste, sembra farsi sempre più “tecnico” e il paradosso è che le pandemie virali come i disastri climatici sono tutti fenomeni già previsti dalla ricerca e tutti hanno la loro origine nel rapporto instaurato con l’ambiente proprio da una tecnica di tipo particolare e molto sensibile sia alle istanze di una economia orientata prevalentemente allo sviluppo del capitale privato che alla volontà di potenza delle singole nazioni.
4) Come governarci al tempo delle connessioni reticolari?
Le “piattaforme di autogoverno locali ma globali e assistite” sembrerebbero essere la logica conseguenza per gestire una condizione di rischio globale che varia da luogo a luogo in base al tipo di trauma ambientale sia esso biochimico-virale, alimentare, climatico o nucleare e della cultura delle popolazioni interessate.
Le connessioni reticolari forniscono il telaio delle piattaforme globali, ma le forme e i contenuti della comunicazione più efficaci variano a seconda delle situazioni specifiche così come l’interazione varia da paziente a paziente. In ogni caso l’importante è la tutela e la ricerca della relazione empatica e umanizzata che nessun robot o algoritmo può garantire. Per un centro di riabilitazione l’importante è che la rete della comunità medica sappia gestire i processi di comunicazione diretta e le interazioni empatiche personali. Anche per la società le vie della comunicazione diretta e dell’empatia umanizzante appaiono inevitabili, sia che siano attivate per manipolare le consapevolezze sia per espanderne i confini.
Le condizioni di confinamento pandemico come quelle di riabilitazione sono fonti di stress così come lo sono le difficoltà economiche. L’instaurarsi di relazioni empatiche tra le costellazioni di sapere e di relazioni inter individuali che formano il contesto riabilitativo sociale permettono di sopportare lo stress provocato dal cambio dei punti di vista e di superare più facilmente i limiti propri e del sistema entrato in crisi .
Una sorta di autogoverno personalizzato consapevole e tutelato online sembra la forma migliore per affrontare il pericolo virale e convivere con gli effetti collaterali di un trauma pandemico. Un simile salto è però ancora ostacolato da profonde ancore culturali che fondano una identità personale e di comunità su principi di separazione con l’Altro e il Resto del Mondo .
Anche nell’enorme e variegato mondo delle disabilità si registra una impressionante proliferazione di associazioni e piccole comunità per ora ancora prevalentemente legate alle singole patologie e personalità. Le piattaforme interattive unificanti fanno fatica ad affermarsi. Spesso non si supera la forma rivendicativa o di tutela del proprio “gruppo di differenti” e si rinuncia ad intervenire sulle necessità di tutta la comunità.
5) Il crepuscolo degli stati-nazione è accelerato dal virus, quale identità comunitaria?
Forse per noi che viviamo in questo mondo è difficile indicare “Quale” sarà l’identità comunitaria del futuro, probabilmente ci dobbiamo limitare a indicare “Come” se ne può costruire una nuova anche grazie alla pandemia che impone la necessità di garantire una comune sopravvivenza personale e ambientale.
L’esigenza di ridurre la virulenza del contagio con limitazione di movimenti e contatti anche intergenerazionali comporta però il rischio di una rincorsa alla chiusura dei confini a difesa della propria identità territoriale che, se si trasforma in opposizioni interpersonali nazionalistiche, può rischiare di far regredire una umanità il cui destino è invece sempre più uno unico e comune.
Anche nel caso del trauma di una disabilità improvvisa, il rischio è la chiusura delle relazioni per lo stress da perdita dell’identità precedente. Accade sempre anche nelle comunità colpite da terremoti o da calamità ambientali. In tutti questi casi la soluzione passa per la costruzione della “Resilienza sociale” che, per chi è in riabilitazione, segue un percorso terapeutico validato a livello internazionale che prevede passi come quelli indicati nella “Road to resilience” dell’American Psychological Association:
- Effettuare più collegamenti possibili
- Evitare di vedere le crisi come problemi insormontabili
- Accettare che il cambiamento è parte della vita
- Muovere costantemente verso obiettivi realistici
- Prendere azioni decisive
- Cercare nuove opportunità di scoperta di sé
- Coltivare una visione positiva di se stessi
- Mantenere le cose in prospettiva
- Mantenere una prospettiva di speranza
- Avere cura solidale di sé
- Cambiare le proprie mappe del mondo e del sé.
A livello di società la terapia più efficace di uscita dalla pandemia è analoga e sembra preludere a una solidarietà estesa oltre i propri confini e al passaggio ad una economia più attenta ai beni comuni. Sul piano dell’identità culturale forse sono l’accettazione del valore segreto delle differenze e delle proprie impotenze a giocare un ruolo decisivo.
Come fare? Per chi è portatore di disabilità si tratta di ribaltare una identità legata allo stereotipo negativo che separa il nuovo “differente” dal vecchio “normodotato” per accedere al valore di una resilienza quotidiana e innovativa originata proprio dalla condizione di non autonomia della volontà personale.
Per la società è possibile un percorso analogo finalizzato a trarre da questa pandemia una spinta intelligente verso la cura del piccolo pianeta azzurro in cui tutti siamo differenti e tutti siamo uno.
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(nell’immagine: fotogramma del salto di Bud Ekins ne “La grande fuga”)
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